Yuval Harari è autore noto: quarantenne, israeliano, storico, vegano, vive in un moshav con il suo compagno e tre cani e pratica quotidianamente due ore di meditazione Vipassana. Ha al suo attivo, tra gli altri, il famoso Breve storia dell’umanità, e il suo seguito, Homo Deus.
Insomma, scrive robe che magari vale la pena leggere.
Per esempio questa cosa del datismo.
Secondo Harari l’esperienza umana si sta riducendo a una rete di dati.
In sostanza gli algoritmi del web, tipo quelli di Facebook o di Google, se in possesso della giusta quantità di informazioni, potrebbero arrivare a conoscerci meglio di noi stessi. In fondo già oggi orientano le nostre scelte e accelerano i nostri processi decisionali.
Inciso: in questo momento 92 società stanno monitorando legalmente il mio comportamento online per usarlo a scopi di lucro (l'ho scoperto qui). Si chiama pubblicità comportamentale e del datismo è simpatica nipotina.
Ok, torniamo ad Harari.
Un tempo i dati erano una faccenda privata tra cittadini e istituzioni.
Oggi congediamo con qualche flag a caso la nostra privacy.
Giù dati su dati.
Il web archivia le nostre mail, conserva i messaggi che noi cancelliamo, conosce i referti dei nostri esami, sa il voto dell’ultima interrogazione, conosce il nostro conto in banca.
Google ci chiede di recensire il ristorante dove sa che stiamo pranzando e ci ricorda che la borsa dei nostri sogni è in saldo.
Facebook pesca dall’oblio del passato volti che fatichiamo a riconoscere e ci convince che sono nostri amici.
Un like o il rifiuto di un post fanno sì che gli algoritmi dei social ci propongano nuovi contenuti più accattivanti. E noi lì, coccolati dall’efficienza della rete, compiaciuti da ricerche veloci, desideri anticipati, e dal godimento pruriginoso di dare giudizi virtuali che mai ci saremmo azzardati a esprimere di persona.
Dove arriveremo? Che potere prevaricante avranno gli algoritmi su di noi?
Il datismo sarà davvero credo universale?
Probabilmente no.
Oppure chissà.
Un dato (per stare in tema) è certo: loro, gli algoritmi, sono più veloci dei nostri pensieri.
E la loro mecca ha seguaci di tutte le religioni.
A noi che ci fregiamo del titolo di educatori resta il dovere, ogni tanto, di ricordarlo ai nostri ragazzi.
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